La vendemmia tradizionale ed antica ischitana, attrezzi, modalità e tanto altro
Vendemmie d’altri tempi
Ma non sono poi tanto lontani da noi i tempi di queste vendemmie, che i giovani di oggi non conoscono nemmeno per sentito dire. Basta andare all’inizio degli anni settanta. Ancora non v’era il dominio della plastica, né quello dell’acciaio inox, né tantomeno della vetroresina, né a maggior ragione di macchine sofisticate per la pigiatura, per la pressatura delle uve ed il pompaggio dei mosti nei tini. Esistevano si, viticoltori più evoluti ed attrezzati, ma in confronto ad oggi il loro corredo di attrezzature farebbe ridere di gusto. La vendemmia era sostanzialmente molto democratica nella sua esecuzione materiale, in quanto ricco o povero che fosse il viticoltore, grosso modo la raccolta delle uve avveniva con modalità identiche.
Stesso discorso in cantina, per l’ammostamento e tutto il resto. Di diverso da oggi, che salta agli occhi anche dei più sprovveduti, era la estensione e la diffusione omogenea di terre vitate su tutta l’isola, anche laddove la resa qualitativa delle uve non era eccellente. Anche il minuscolo appezzamento di terreno non ospitava altro che viti. Un mare di vino prodotto ogni anno, tanto che se spillato tutto insieme da una collina avrebbe potuto provocare un’alluvione di un intero paese.
In quel panorama produttivo che definirei “cospicuo” e di grande portata socio-economica, era stratificata una modalità di esecuzione delle vendemmie, che tranne trascurabili differenze da un polo all’altro dell’isola, erano sostanzialmente identiche. Per cogliere appieno questa modalità, a confronto delle vendemmie di oggi, basterà che vi faccia un elenco il più completo possibile degli attrezzi di cantina più usuali, arricchendolo di qualche commento. Mi perdonerete se incapperò in qualche dimenticanza.
Vasi vinari (recipienti per il vino)
Legno, legno, ancora legno e solo legno come materiale di base: Quindi botti di dimensioni variabili dalle otto botti (una botte = 528 litri), passando per dimensioni via via più piccole, ma con una preponderanza media di quelle da cinque botti. Le più piccole da una botte, ma anche la mezza botte ed il quartaruolo (250 litri). Tutte rigorosamente di castagno, e talvolta con il solo tompagno anteriore di ciliegio. Costruite direttamente dai mastri bottai ischitani e spesso anche con legno delle nostre fustaie di quella pianta.
Le più grandi con portello centrale basso anteriore per favorire lo sfecciamento e la pulizia interna, difficile in mancanza per la loro dimensione notevole. Nomi dialettali: Votte, Vettune, meza votte, quartaruole, burduless, ecc. Il mastro bottaio doveva essere abile anche nella manifattura dei cerchi (un tempo di legno castagno sempre, poi di ferro battuto), e nella loro chiodatura. Ma anche nella riparazione di vecchie botti, come ad esempio la sostituzione di doghe rotte, tarlate, ecc. dei cerchi, e soprattutto nella sanificazione delle botti perse, ovvero che sapevano di secco o di forte acidità.
Attrezzi ordinari per uso e manutanzione delle botti
Vi faccio un elenco sintetico. In testa troviamo il TIRAPORTELLO, ovvero un piccolo argano di legno, a forma di arco, con una pinza centrale comandata da un manubrio incardinato a vite nella parte centrale dell’arco di legno. Serviva a tirare il portello dall’interno della botte per chiuderla prima di immettervi il mosto o il vino. Il portello era munito di un gancio centrale per l’appiglio della pinza.
Operazione delicata, che richiedeva perizia e maestria per eseguire una corretta chiusura senza danneggiare né il portello né il suo alloggiamento nella mezzina del tompagno della botte. Di solito si lutavano le superficie di scorrimento con argilla impastata e le superfici del portello guarnite con una foglia di paglia secca (si vendevano a fasci, negli emporii di paese a poco prezzo).
Il cantiniere, applicato l’attrezzo, si dava ad avvitarlo con il manubrio, non prima di aver allentato un tantino i due cerchi di testata. Di tanto in tanto con un mazzuolo di legno dava colpi ai lati del portello, sulla mezzina del tompagno, per facilitare l’alloggiamento del portello nella sua sede. Ad operazione ultimata, smontato il tiraportello, applicava un piolo di legno nella staffa centrale del portello, per renderlo solidale al tompagno.
Lo STRINCICERCHI era uno scalpello mobile applicato nell’incavo di una staffa posizionata a sua volta all’estremità di un manico di legno. La superficie battente dello scalpello era conformata ad “U”corto, in modo da calzare perfettamente con il bordo esterno del cerchio. Il cantiniere o il bottaio agiva lungo la circonferenza dei singoli cerchi, applicandovi man mano l’attrezzo su cui impartiva colpi con un mazzuolo di ferro.
Anche questa operazione delicata che richiedeva esperienza notevole. Sempre sulle botti, lo scalpello a coda di rondine (la superficie battente, lunga circa 4 cm, aveva un prolungamento laterale leggermente ripiegato verso il basso, da qui il nome…) era impiegato per ribattere la paglia o la stoppa sul perimetro del portello dopo la tirata. Ma anche per rifinire piccole riparazioni sulle doghe o sul tompagno con stoppa o filo di paglia, con impasto di nitro e calce (una sorta di cemento a presa rapida che si faceva con le croste frantumate di cremor tartaro e calce, che tutti i cantinieri conoscevano e di facilissima preparazione).
Tini e tinozze
Gli uni (i tin(e), al femminile in dialetto) servivano per la gestione delle vinacce in fase di torchiatura, per depositarvele tra la prima e la seconda passata, oppure per vendemmie minori, tipo acinato, piccole quantità di vino rosso, sorriso, ecc. Per non impegnare un palmento di grandi dimensioni. Erano ottenuti di solito sezionando a metà vecchie botti non più adatte a ricevere il vino, ma ancora idonee come recipienti aperti.
Quindi di legno, come le botti, e problemi manutentivi simili. Le tinozze, in dialetto t(e)niell(e) rigorosamente di legno, anche nei cerchi, erano i recipienti per eccellenza sia per la raccolta delle uve che per le altre operazioni di cantina. In vendemmia pesavano a vuoto (dopo rigonfiamento in acqua) non meno di 7 chili, con un volume di circa 18 litri nella versione standard, che aumentava a circa 22 litri nella versione di Castellammare (molto invisi ai trasportatori).
Un suo carico standard, con uva pigiata, non era inferiore quindi a 25-27 kg. Il più delle volte caricati a spalla, o sulla testa, in specie le donne, con l’intermedio di un tortello di stoffa (u’ turtiell(e)), per il cui uso occorreva che il trasportatore imparasse presto a confezionarlo con un cencio di stoffa. Cosa non semplice, ma non impossibile. Serviva ad attutire il contatto del duro legno con la spalla o con la testa. Ma nonostante tutto, a fine vendemmia i segni, in specie sulle spalle e sulle braccia che facevano da puntello nel trasporto fino alla cantina, erano visibilissimi, fino alla piagatura. Ma tant’è, era un lavoro, duro quanto si vuole, ma pur sempre un lavoro che dava un salario. A dirlo oggi ai nostri giovani! E chi si arrischia?
Aggiungiamo a tini e tinozze anche il Cat(o) i lignamm(e),ovvero un secchio di legno con manico, costruito grosso modo con la stessa tecnica dei t(e)niell(e). Recipiente multiuso per eccellenza in quanto, munito di crocc(o) (gancio anch’esso di legno), serviva per le vendemmia dell’uva posta sulle spalliere alte. Ma serviva anche a prelevare acqua e mosti bollenti dalla caldaia di rame, per le operazioni di cantina (scaurata, vino cotto, ecc.).
Essendo di legno era molto ben saldo e di ottima tenuta al calore. Evitava anche che le mani si potessero scottare. Ma non può essere dimenticato ‘u mut(o), ovvero una tinozza larga e bassa, sempre di legno e cerchiata di ferro, con un piolo cavo che spuntava sul lato basso della stessa, su un lato, utilizzata come imbuto all’atto del riempimento delle botti. È chiara l’origine della parola dialettaleper corruzione dall’italiano Imbuto. Ma secondo altri non è questa l’origine della parola, quanto piuttosto il rumore che proviene dall’attrezzo quando si versava il mosto nella botte, che alla fine produce un rumore soffocato che dissimula il verso delle persone mute.
Adesso vi propongo alcuni termini legati a botti, tini e tinozze. ‘U feccial(e), individua principalmente il foro di uscita basso delle botti, ma anche il relativo tappo di legno che chiudeva quello all’atto dell’inizio del riempimento del mosto o del vino, ed anche dell’acqua di lavaggio. Invece ‘u mafr(o) altri non è che il foro posto nella parte più alta e centrale della botte, in italiano cocchiume.
Mentre l‘ain(a) individua il solco ricavato circolarmente in tutte le doghe nel quale trovano alloggiamento le assi che compongono i due tompagni (anteriore e posteriore), compreso la parte bassa del portello. Una frase ricorrente nel linguaggio dei cantinieri era la seguente: “Stai attento quando tiri il portello che può uscire dall’ain(a)!, che una persona esperta rivolgeva ad un principiante nell’atto di apprendere l’arte dell’importellamento delle grosse botti. ‘ a m(ezzin(a) che più volte ho citato, è la tavola centrale che compone il tompagno anteriore.
Di solito piazzata esattamente al centro, simmetricamente, come condizione obbligata per potere ospitare il portello basso. ‘U pirul(e) è un pioletto appuntito (a modo di matita) con cui si otturavano piccoli fori prodotti con la vrial(a) (un cavicchio a mano, molto semplice) direttamente nel tompagno delle botti, di solito con la funzione di spillare modesti quantitativi di vino, ad esempio a San Martino (assaggiavino). Il pirolo veniva foggiato di solito da uno stelo secco di mortella, prelevato da una scopella. O da un rametto di limone.
‘A cannell(a) è invece un manicotto cavo e debolmente ricurvo, ottenuto dal culmo da un internodo di canna comune. Veniva applicata al fecciale delle botti, guarnendola con stoffa di cotone o di sacco, e ripuntata con lo scalpellino a coda di rondine. Chiusa poi con un tappo di sughero, anch’esso guarnito di stoffa. Si applicava a botte colma, sia all’atto dello sfecciamento che della svinatura di vino limpido. Operazione delicata e rischiosa che non tutti sapevano fare, o avevano il coraggio di fare per il timore di perdere quantità eccessive di vino.
Al buco del pirolo, per regolare meglio il flusso del vino, di solito si applicava ‘u canniell(o), ovvero un omologo della cannella, ma di dimensioni più piccole, ed affilato ad un’estremità a becco di clarino per consentirne l’alloggio nel foro della botte. I cannielli si usavano estemporaneamente, ponendoli con abilità al posto del pirolo, che poi ritornava in sede dopo la spillatura del vino. Più recente, ma non hanno mai avuto grande successo le spinozze, sia di legno che di metallo (ottone), impiegati al posto della cannella rispetto alla quale permettono di stare più sicuri in quanto muniti di rubinetto.
Il loro insuccesso ad Ischia fu dovuto al fatto che mal si adeguavano ai fecciali delle botti, ed un piccolo colpo poteva farli saltare, con perdita di vino. Più recentemente, per alcune botti di castagno fabbricate nell’avellinese, le spinozze di acciaio inox o di ottone, venivano assicurate al portello con una ghiera filettata applicata dall’interno, che non permetteva il distacco del dispositivo. Parlo al passato, perché anche questo tipo di botti è in via di quasi completo abbandono.
Palmenti ed uscitoi
Nell’architettura tipica e tradizionale di cantine e cellai dell’isola d’Ischia (la differenza la vedremo in seguito) era previsto almeno un palmento (‘ u pal(e)mient(o)) e un uscitoio (l’iscetur(o)). Tralasciamo volutamente l’etimologia delle due parole, per concentrarci sulle loro caratteristiche costruttive. Dico subito che si tratta di due vasche in muratura, contigue, di cui la prima posta più in alto della seconda, e collegate tra loro solo da un foro ricavato tra muro e pavimento del palmento, al centro del ‘roce, una pietra trachitica sporgente in alto di circa 15 centimetri nell’uscitoio, a superficie piana nella parte superiore, curva ad archetto nella parte inferiore.
Negli uscitoi più grandi si accedeva mediante una scaletta sempre in muratura adagiata al muro più esterno. In quelli piccoli, si scendeva direttamente dal bordo, magari con l’ausilio di un tinello rovesciato adagiato sul pavimento, a modo di scalino. Il foro del roce, all’ocorrenza era chiuso con un grosso piolo di legno di fico o di lauro o di sorbo, a punta conica, e guarnito con pezze di cotone o di sacco più volte passate per il bucato contadino (‘a culat(a)), quindi molto puliti e morbidi, e detti comunemente c(i)nn(e)ral(e), ovvero passati per la cenere o che trattengono a modo di filtro, la cenere del bucato.
Nelle cantine che servivano fondi molto grandi, dove si vinificavano sia uve bianche che rosse, v’erano due palmenti disposti simmetricamente ai lati dell’uscitoio che occupava la posizione centrale. Quindi due ‘roce, per due vendemmie separate, di cui la prima sempre delle uve bianche, per evitare inopinate colorazioni rossicce del vino bianco. Ma spesso il doppio palmento veniva impiegato anche per accogliere contemporaneamente i mosti bianchi di vigne molto estese.
Poi magari, appena dopo, la vendemmia del rosso in uno solo di essi. Il coronamento superiore di palmenti e uscitoi era sempre di dura pietra lavica i cui conci erano connessi strettamente tra loro. Il rivestimento interno era fatto con un intonaco dello ‘ retton(e), o ‘rutton(e), che non prevedeva cemento, ma piuttosto un impasto di pomici e sabbia lavarina con calce spenta, conservata a lungo nei cauc(i)nari(e), ovvero nei calcinai che altri non erano che dei tini di legno in cui si faceva avvenire la maturazione dell’intonaco, con continui rimestamenti ed aggiunta di latte di calce. Tecnica ereditata dai romani che la utilizzavano sia per la posa dei mosaici, che per la impermeabilizzazione di cisterne ed acquedotti.
Attrezzi ed utensili minori usati nelle cantine
Per le necessità di pulizia generali della cantina erano in uso, ed in parte lo sono ancora oggi, utensili sempre ricavati da materiali naturali. Iniziamo dai scopill(i), ovvero delle scopette piccole di paglia di riso o di altri cereali, di fabbricazione continentale, quindi che si compravano sempre in questi emporii-botteghe di paese che vendevano un poco di tutto. Di colore giallo o verdolino, venivano confezionati alla stessa maniera delle scope di paglia, ma di dimensioni tali da potere essere impugnati ed usati con le mani direttamente. Con essi si pulivano botti, tini, tinelli, ecc. Ma la vera regina era a scupell(a) e murtell(a), una scopa ottenuta con rami di mortella lunghi almeno metri 1,40-1-60, legati più volte a fascetto con fil di ferro, in modo da ottenerne un manico idoneo ad essere impugnato ad una o entrambe le mani.
Di norma se ne confezionavano di diverse dimensioni per un uso più variegato e versatile. I rami raccolti maturi almeno un mese prima di vendemmia, erano seccati all’aria e, privi di foglie legati nel modo detto. Perché la mortella e non altro? In primo luogo perché pianta gentile e nobile, di odore grato e niente affatto velenosa. Caratteristica che si sposa ottimamente con la necessità di operare su un prodotto, il vino, che occorre preservare da sostanze estranee pericolose. Poi perché i suoi rametti terminali sono abbastanza duri da resistere allo sfregamento su superfici scabre, quali quelle dei palmenti, ed efficaci nel rimuovere sporco di varia consistenza.
Non ultimo l’impiego dei suoi fusti per ottenere ad esempio i piroli da applicare alle botti per la spillatura, oppure per rinfazzare e riparare buchi e cavità nel legno delle botti. I nostalgici come me, ogni anno si dedicano alla raccolta dei rami di mortella per fare le scopelle. Altri tipi di scopettine si ottenevano da taluni anche con le foglie di canne arrennute (= mature e quindi abbastanza dure) e fatte seccare al sole. La sua fattura era semplicissima: il mazzetto composto da almeno 30 foglie, veniva legato strettamente a circa 10 cm. dall’estremità del picciolo. Intorno a questo nodo si rivoltavano al contrario le foglie, per poi legare nuovamente in due tre punti il fascetto rivoltato, in modo da ricavarne il manico. Questa scopella, a costo zero, era tuttavia molto delicata e durava poco. Ma se ne potevano fare a volontà e quindi essere un buon surrogato degli scopilli comprati.
Il cufaniell(o) ‘i l’acene (= la cesta degli acini) era per l’appunto una cofana piuttosto bassa, provvista di due manici contrapposti, confezionata alla stessa maniera dei canestri da raccolta e trasporto, ma non con vimini e canne, quanto invece con giunchi di castagno o di salice rosso (culel(e) o cutel(e)). Il riferimento agli acini è dovuto al suo impiego: filtrare il mosto grossolanamente da acini, bucce, raspi e vinaccioli, all’atto ad esempio dell’ “ammuttamento“, ovvero della separazione del mosto dalle vinacce e del suo versamento nelle botti. Questo termine non è stato mai usato in questa maniera nelle nostre cantine. Mentre erano frequenti espressioni di questo tipo: “avimm(e) ammuttato, ma nunn(e) avimm(e) ancor(a) trucchiat(o)! “, che in italiano diventa: Abbiamo ammostato, ma ancora non abbiamo ancora torchiato le vinacce!
Per movimentare uve e vinacce nei palmenti, per disfare le vinacce pressate nei torchi, ecc. si usava e ancora oggi parecchi usano un forcone a cinque denti piatti e aguzzi in punta detta ‘a cinqu(e)renz(a), che chiaramente riconduce al termine italiano cinque denti. L’uso di questo attrezzo richiedeva una certa prudenza, in primo luogo nelle prossimità dei muri del palmento, in quanto un uso distratto poteva inferire colpi accidentali all’intonaco con conseguenti rotture e perdite di mosto. Non secondario era il pericolo, stando in più persone a stretto contatto, di ferire qualcuno con le sue punte aguzze.
Le pigiatrici meccaniche manuali (‘i pigiatric(e)) sono entrate nell’uso sulla nostra isola già ai primi del novecento. Ma non hanno avuto subito un’ampia diffusione per vari motivi. Tra questi la naturale diffidenza ad inserire nella pratica un nuovo mezzo al posto della pigiatura con i piedi (calcatura: in dialetto non si usa l’aggettivo, ma solo la forma verbale: “carcà“,che sta per calcàre, ovvero pigiare l’uva con i calcagni, pratica in uso da tempi remotissimi, in Italia dagli etruschi e poi dai romani con i famosi calcatores, e poi fin quasi ai giorni nostri in tutta la penisola).
A due o tre rulli, dentati o nervati, i primi modelli erano pesantissimi con cassa interamente di legno che si estendeva in due coppie di robuste assi contrapposte, a modo di una barella, per poterla adagiare su supporti disposti sul palmento, in maniera da far cadere il pigiato direttamente al suo interno. Il movimento ai rulli era indotto da un ampio volante circolare, in ghisa, manovrato con una semplice manovella in legno applicata trasversalmente in un punto della sua circonferenza. L’evoluzione costruttiva ha via via alleggerito la macchina, e resa al contempo più efficiente nella presa e convogliamento dell’uva nella bocca dei rulli contrapposti.
Ma sostanzialmente in tale attrezzo non c’è stata nessuna evoluzione significativa, se si toglie la sua elettrificazione con corredo di motorino che evita il lavoro manuale. Le pigiadiraspatrici invece (qualcuno in dialetto le designa come str(e)ppatric(e), dal dialetto strepp(e) con cui si indicano sia i raspi dell’uva che le stoppie di fave, piselli, fagioli, ecc.) sono relativamente recenti e a rigore non entrano nella vendemmia tradizionale ischitana.
Il torchio (‘u trocchie) in tempi relativamente remoti e non esattamente individuabili per l’ovvio motivo che la nuova introduzione di un mezzo non è generalizzata, e coesiste con il vecchio anche per periodi molto lunghi, ha nel tempo sostituito la Pietra Torcia (‘ a pretatorc(ia)) di cui sull’isola ancora qualcuno ricorda l’uso e soprattutto il suo funzionamento alquanto complesso. Il torchio ha veramente fatto la rivoluzione sull’isola in fatto di pressatura dell’uva, prima alquanto difficoltosa ed inefficiente in fatto di resa in mosto. I primi modelli sembra avessero anche la vite maestra in legno. Ma non mi risulta sia mai stato usato un simile ordegno sulla nostra isola.
Quelli che conosciamo sono tutti con vite centrale in acciaio. I primi modelli con robusto basamento in legno castagno, che di tanto in tanto bisognava calafatare per evitare perdite di mosto per gocciolamento sul basso. Spesso tale basamento, una volta rovinato e non più riparabile, veniva sostituito con un basamento in muratura dentro o fuori la cantina. Problema più comune: la postazione fissa e inamovibile che pregiudicava l’uso razionale dello spazio. Poi sono arrivati i basamenti in acciaio, con notevole miglioramento. Ma i torchi con base di legno, ancora sull’isola ve ne sono, ma come arredo di ville o cantine storiche, erano senz’altro molto belli e dotati di un certo fascino. La pressatura verticale delle vinacce era, ed è ancora oggi, trasmessa da un congegno meccanico razionale costituito da una madre vite a ghiera forata, avvitata sulla vite centrale.
Un cardine prossimale era inchiavardato sul basamento a fulcro mobile con due bielle (destra e sinistra) da un lato sul basamento della testa del torchio, e dall’altro sulla madre vite. Le due bielle sono dotate di alloggio cavo per due zeppe di acciaio appuntite unilateralmente. Il movimento alternativo delle due zeppe trasmesso dal moto orizzontale del cardine, trasmesso a sua volta da un lungo bastone solidale con lo stesso nella sua bocca esterna, trasmette il moto rotatorio alla madre vite che così si avvita verso il basso, comprimendo i tompagni di legno sulle vinacce e facendo così fuoriuscire il mosto attraverso le feritoie della gabbia che le contiene.
Per disfare il torchio occorreva riportare in alto tutto il meccanismo. Bisognava strucchià(re), e quindi svitare la testa dalla vite. Bastava semplicemente invertire la posizione delle due zeppe portando il lato acuto sul lato contrapposto (rotazione di 180 gradi) e agire ancora sul bastone di ferro con moto alternativo. I termini dialettali delle varie parti li riassumo in elenco: ‘a cap(a) ru trocchie, ‘i zeppe, ‘u bastone, ‘ i piezz(e) i lignamm(e), tra cui si distinguono i pezzi ordinari per costituire ‘u castellett(o), da quelli speciali: ‘i tumpagn(e), ‘accannator(e). Poi ‘i caiol(e), ‘i chiav(e), ecc. Facile decodificare significato e traduzione in italiano. Ma riserviamo una spiegazione per ‘i tumpagn(e) e ‘accannator(e). I primi sono tavole semicircolari che vanno a chiudere in alto le vinacce contenute nella gabbia; i secondi sono i pezzi di coronamento del castelletto su cui poggia il basamento della testa del torchio. Il termine deriva dal fatto che questi pezzi vanno accostati alla vite, come qualcosa che sta sulla gola (‘ngann(e) a vit(e)), ovvero accosti alla gola della vite del torchio.
Per tale scopo spesso erano anche dotati di gancetti laterali per rendere solidali i due pezzi contrapposti. L’evoluzione più recente nei torchi è stata la sostituzione della testa a meccanismo razionale, con un martinetto idraulico. I primi arrivi sull’isola all’inizio degli anni settanta. Anche qui tante discussioni sulla loro efficacia a confronto con quelli vecchi. Poi un’ampia diffusione, ma non totale, per cui ancora oggi sono in uso tanti torchi di prima generazione.
Di caurar(e) e trebbet(e), ovvero caldaie e treppiedi, forse vi ho già cennato in altre occasioni, ma un rinfresco non fa male. Le prime, di rame, a volte con rivestimento di stagno all’interno, ve n’erano di varie forme, ma si solito avevano uno scalino più sporgente sul bordo superiore, di circa 4 cm. di larghezza, per permettere il loro alloggiamento in focolari in muratura. Due manici ad occhiello, sempre di rame, od anche di ferro, servivano per le manovre usuali nel loro impiego. Il loro volume era espresso con le stesse unità di misura del vino, ovvero: nu varrill(e) (un barile = 44 litri), oppure na salem(e) (una salma = circa 60 litri), ecc.
Il treppiede, di ferro battuto e circolare, era fatto per l’uso delle caldaie senza focolare. Di solito usato per caldaie di grandi o grandissime dimensioni. Nel passato la loro costruzione era affidata agli zingari che venivano ad Ischia ad esempio in occasione della festa della Madonna di Montevergine allo Schiappone di Barano. Ma c’erano anche i fabbri ed i maniscalchi (ferracavall(e)) dell’isola che vi si dedicavano con profitto.
La cosa singolare era che questi attrezzi, quando non disponibili in cantina, venivano richiesti in prestito ai parenti, od ai vicini, con ricambio alla bisogna su altri attrezzi ed utensili, per cui nelle nostre campagne non era insolito incontrare delle persone di ritorno da un prelievo o da una riconsegna, in virtù di quella consuetudine. Non mancavano raccomandazioni sul buon uso per evitare danni, rotture e conseguenti dispute. Questa usanza, insieme ad altre, era si un modo di fare economa negli acquisti, ma a ben vedere era molto utile anche per iniziare o rinsaldare rapporti di amicizia, di buon vicinato, di comparaggio, e di parentela più o meno stretta.
Il villaggio contadino, il borgo, viveva di questi sani impulsi che evitavano l’isolamento stretto, foriero di solitudini e alienazioni morali. Poi vorrò parlarvi, a tempo opportuno, della Confraternita Familiare fra Rustici, una istituzione non scritta del diritto agrario antico, che viveva nelle campagne d’Italia e dava frutti proficui di solidarietà ed ottimizzazione della forza lavoro, nel tessuto sociale delle popolazioni rurali, anche della nostra isola.
Scal(e), Scaliell(e) e Scalandrun(e)
Sono i termini dialettali, che tranne sfumature fonetiche da zona a zona dell’isola, designavano rispettivamente SCALE, SCALETTE E SCALONI. Tutte scale a pioli e di legno castagno,che servivano sia in vendemmia, come vedremo, ma anche per gli usi di cantina ed altro. A scal(e), è una scala ordinaria, a pioli, che serviva soprattutto nelle contrade dell’isola dove le viti erano addossate a spalliere alte o molto alte, alla maniera quasi delle alberate dell’agro aversano ad uva asprinia e catananesca. La loro altezza era proporzionata e adeguata a quella di quelle spalliere, e non indicata in metri, bensi in rar(e), ovvero ingradi o gradini.
Quindi si avevano scale a sei, otto e fino a – pochissime volte – dieci rar(e).Le estremità inferiori erano appuntite in modo molto aguzzo, o addirittura munite di un puntale di ferro (‘u cruosc(o)) per fare in modo da poterle infiggere nel terreno fino al primo scalino, posto in alto a non meno di 60 cm., e che doveva fare da contrappunto nel terreno stesso. La profondità di penetrazione era necessaria per assicurare stabilità alla scala nel suo uso, fino ad almeno la salita al terzultimo scalino, anche senza appoggio alla spalliera o ad un ramo di albero. gli scalini superiori erano distanziati l’uno dall’altro di almeno 40 -50 cm. per fare in modo da potervi infilare una gamba dentro e fare contrasto con la parte superiore della coscia, al punto da consentire al contadino di reggersi in equilibrio tenendo entrambe le mani libere. Necessità importante sia a vendemmia che nel corso della potatura e legatura delle viti.
Quindi scala senza appoggio in alto, e mani libere. I contadini, quelli versati in queste operazioni, erano quindi anche una sorta di equilibristi. E trovavano anche il modo di fumare la pipa di terracotta, o il sigaro, e più tardi la sigaretta, senza interrompere il lavoro. Lo scaliell(o), era una scala sempre di castagno, a pioli, ma più corta e di solito più robusta e con scalini più larghi. Applicata vicino alle botti grandi, serviva a risalire al colmo delle botti, con un tinello colmo a metà circa di mosto sulla testa, per versare il liquido nel mut(o).
La salda robustezza era finalizzata a dare sicurezza all’uomo nelle ripetute salite e discese. Per salire molto in alto, ad esempio sul tetto della cantina, o su un ammezzato, o in altre parti del centro colonico poste molto in alto, con necessità di andarvi spesso, c’era ‘u scalandron(e), ovvero una grossa scala a pioli, in legno ovviamente, messa fissa in quel posto. Anche qui grossi spessori, soprattutto degli scalini, per robustezza e facilità in salita ed in discesa.
Tre vendemmie e alcune raccolte
Intanto voglio spiegarvi la differenza tra vendemmia e raccolta: La prima è sempre una raccolta di uve, ma finalizzata a trasformare le stesse in mosto e quindi in vino. Le seconde hanno scopi diversi, che non mancherò di spiegarvi nel prosieguo. Dunque, tre vendemmie! Ma cosa sarà mai?, qualcuno si starà chiedendo.
Ecco la spiegazione: una e una sola è la vendemmia importante, che potremmo definire GRANDE. Le altre due – o anche più- sono vendemmie secondarie, che quindi potremmo definire PICCOLE. In ordine cronologico infatti abbiamo: ‘A raspat(a), a cui segue ‘a v(e)nnegn(a), ed in ultimo ‘a v(e)nnegn(a) ru t(e)mp(e)stin(o). Quindi due vendemmie piccole e la grande. Gli aggettivi impiegati- piccola – grande- si riferiscono soprattutto alla quantità di uve raccolte ed al tempo occorso, quindi anche alla loro importanza relativa nei confronti del vino prodotto e della loro qualità e valore economico intrinseci. Vediamole in rassegna.
‘A raspat(a) era in effetti una vendemmia anticipata, fatta il più delle volte direttamente dal proprietario della vigna e da qualche familiare anziano,con la quale si raccoglieva l’uva guastata da marciumi, o rovinata da altri accidenti casuali (beccate d’uccelli, grandinata, vento ecc.). Aveva lo scopo di separare queste uve qualitativamente più scadenti dalle uve più sane e buone, ma soprattutto di permettere a queste ultime di maturare meglio sulle viti prima di vendemmiarle.
Vi si dedicavano soprattutto le persone più anziane e le donne, perché richiedeva più pazienza nello scarto del marcio dai grappoli. Con la raspata non si impegnava di solito il palmento, ma si impiegavano i tini di legno (i tin(e)), oppure si versavano le uve direttamente nel torchio, pigiandole poi con i piedi, e quindi evitando anche l’impiego della pigiatrice. Il vaso vinario impiegato era di piccole dimensioni, nu quartaruol(e), o al massimo na mezavotte, e nei casi di vigneti più estesi anche na vott(e) san(a), ovvero una botte intera, pari a 528 litri.
‘A v(e)nnegn(a) ru t(e)mp(e)stin(o): L’uva tempestina è quella prodotta dalle viti da una seconda o addirittura terza fioritura stimolata dalle cimature dei tralci in primavera e portata di solito sulle femminelle (tralci secondari che spuntano dai nodi dei tralci primari). I contadini esperti sapevano anche come indurre nelle viti queste fioriture secondarie e si prodigavano nel farlo anche ricorrendo a una tempistica ben precisa, o affidandosi a punti di riferimento del calendario scanditi dalla ricorrenza di santi, o delle fasi lunari. In alcune annate favorevoli l’uv(a) t(e)mp(e)stin(a) era talmente abbondante da giustificare una vendemmia supplementare, di solito fatta circa un mese dopo la vendemmia grande.
Quindi con attrezzi e palmenti tutti già ripuliti e messi a posto. Le viti sgravate dal grosso dell’uva, e con un decorso climatico favorevole, maturavano quelle uve in maniera egregia, per cui il viticoltore stimava essere un peccato non trarne altro vino. Di solito accadeva che chi si trovasse in quella circostanza, menava anche un vanto personale, nei discorsi fatti con colleghi ed amici, usando espressioni di questo tipo: “Chist’ann(o) haggie fatt(o) na votte e raspat(a), trenta vutt(e) i vin(e) e doie vutt(e) e mez(a) i t(e)mpestin(o). Oppure: Chist’ann(o) ‘u tempestin(o) ha fatt(e) ‘u vin(o) megl(ie)ra vennegn(a)! Non penso occorra tradurre in italiano.
Da rimarcare come in talune contrade dell’isola l’unità di misura del volume di vino- la botte- veniva pronunciata con cambio di vocale dopo l’iniziale, da “o”ad “u”nel passaggio dal singolare al plurale: na vott(e), doie vutte.
Altre vendemmie minori o piccole
Erano riservate a produzioni di vini che potremmo definire speciali. Tra queste l’acenat(o) –l’acinato – di solito fatto con uve rosse, ma non di rado anche con uve bianche. Si usava lasciare sulle viti una parte delle uve più belle e mature, magari di varietà più pregiate (guarnaccia, malvasia, biancorellone, biancollela masculiat(a), uva inest(a), uva pan(e), ecc.), segnalandole ai vendemmiatori con mezzi disparati, come ad esempio l’apposizione sulle viti di un pennacchio di straccio colorato, o la legatura di foglie di canna, per dire: “Queste non le dovete raccogliere!”Per tutta la durata delle vendemmia GRANDE quelle uve rimanevano pendenti sulle viti così maturando meglio e divenendo più zuccherine.
Sul finire della vendemmia grande, alcuni vendemmiatori procedevano al taglio procurando di non far schiacciare gli acini, usando quindi più delicatezza e riponendole con cura nelle cufanell(e), su di un morbido letto di foglie di viti, tutte nello stesso verso, ovvero con il picciolo del raspo rivolto in alto. Sull’aia della cantina venivano trasferite sulle nassell(e) di ginestra ed esposte al sole sul tetto della cantina o della casa, o sulla stessa corte della cantina. Di sera accuratamente ricoperte con teli di c(e)nneral(e), per poi essere riscoperte la mattina seguente.
Questa sequela durava per il tempo necessario ad un giusto grado di appassimento dell’uva. Di solito non meno di otto giorni. Interrotti solo nel caso di piogge frequenti che imponevano forzosi ricoveri delle nasselle al coperto. Il nome acinato derivava dal fatto che queste uve venivano alla fine sgranate acino per acino per privarle dei raspi. Si faceva comunitariamente sulla corte della cantina, mettendo insieme persone anziane, donne e bambini, magari con l’apporto attivo del vicinato. Seduti n’copp i t(e)niell(e) rivoltati sottosopra, testa a testa più persone sgranavano gli acini in un tinello comune posto a centro.
Occasione propizia per un sano chiacchierare, o per snocciolare racconti, accennare a canzonette, insomma per stare insieme non bene, quanto piuttosto benissimo, al riparo dalla noia! La sgranatura manuale consentiva innanzitutto di escludere focolai di marcio o uva non perfetta. Poi di attivare ben bene la fermentazione in quanto la manipolazione permetteva ai lieviti naturalmente presenti sulle bucce degli acini di diffondersi al meglio e riprodursi facilmente al mosto permeato nel recipiente di raccolta. Gli acini poi venivano passati con la pigiatrice, o carcat(i) con i piedi, direttamente in un tino di legno (‘a tin(e)) di giusta capacità.
Seguivano altre operazioni accessorie, come ad esempio l’aggiunta di una o più caurar(e) di mosto bollente e ristretto per dare rotondità e abboccatura al futuro vino. Poi due o tre giorni di macerazione con continui rivoltamenti delle vinacce, fino alla torchiatura finale. Nel chiaroscuro tranquillo della cantina, nei mesi successivi, il bravo cantiniere dispiegava la sua bravura – diciamo pure arte- nel fare in modo che quel vino speciale giungesse sulle tavole di tanti già per Natale. Ottimo esempio di sapere enologico, oggi quasi del tutto smarrito sulla nostra bella terra di Ischia!
Tralascio a questo punto di narrarvi altri tipi di vendemmie piccole, poco frequenti e meno importanti. Lavorazioni speciali, più che vendemmie, possono essere considerate la produzione del Vino sorriso (in alcune contrade, come Serrara Fontana e Panza soprattutto, la particolare accentazione dialettale, porta a farlo nominare ad esempio come “‘u – S-u-r-r-a-i-s-(e) “).Come pure de “‘u vin(e) cuott(o) “, o ancora de “a saccapann(e)”e “l’ acquett(a)”. Questi ultimi sono due vinelli ottenuti aggiungendo acqua alle vinacce non completamente prive di mosto, oppure alle fecce ottenute in occasione delle svinature delle grosse botti (i v(e)ttun(e)). Dette anche b(e)vand(e) perché leggere di alcool e adatte nei mesi caldi di primavera ed estate per dissetare i braccianti al lavoro nella vigna, per evitare di stordirli con il vino vero e proprio. Ma era una soluzione il più delle volte poco gradita ai braccianti perché non sempre il sapore di queste bevande era accettabile.
Soluzione che andava benissimo invece al proprietario della vigna perché risparmiava vino dal valore economico più rilevante. Insomma i braccianti si lamentavano, ma il proprietario se ne infischiava. Non mancavano però le eccezioni, ovvero che si trattava di bevande di buon gusto, addirittura richieste dagli stessi prestatori d’opera che volevano comunque far prevalere il bisogno di un sano dissetarsi, rispetto al rischio di una sbronza. Ogni mondo è paese, direbbe qualcuno, e a dargli torto…!
Raccolte di uva
Quindi non vendemmie, è chiaro no? Ma di cosa si trattava veramente ve lo illustro subito con le due forme più comuni: la produzione dell’uva passa e le cosiddette pernecchi(e).La prima ottenuta esclusivamente da uva ruman(a), o da uva pan(e), più adatte di altre allo scopo. Le uve venivano scrupolosamente scelte per maturazione e sanità e lasciate ancora sulle viti in occasione della vendemmia.
Quindi, raccolte con calma ed intere, ovvero senza inutili maltrattamenti, venivano sottoposte sulla corte della cantina o della casa colonica, ad una veloce sbollentatura. Non più di 30 secondi di immersione nell’acqua bollente di una caurar(a) o di un caurariell(o) (una caldaietta più piccola o addirittura una pentola di alluminio di uso comune nella cucina del contadino). Poi, fatta sgocciolare ben bene, l’uva veniva disposta in maniera ordinata e regolare su una nassell(a) di inest(a) (ovvero, una piada di ginestra intrecciata) ed esposta al sole con possibilmente una copertura di telo di cotone a maglie larghe per proteggere l’uva dalle mosche e dalle vespe. Si rivoltavano più volte i grappoli nel corso dei giorni successivi scartando quelli o le parti di essi visibilmente rovinati.
Gli acini acquisivano man mano una colorazione prima ambrata, poi marroncina caratteristica, e si rapprendevano. Ad appassimento ultimato, acquisito le sembianze ultime di uva passa, i grappoli prima di essere disposti in boccacci di vetro a bocca larga, in alcuni casi venivano – adagiati in un ruoto di alluminio o di rame- passati velocemente in un forno a legna non troppo caldo, evitando di farli bruciare. Giusto per proteggerli da muffe o eventuali insetti.
L’uva passa era utilizzata come ingrediente in cucina in numerose pietanze e dolciumi. Ricordiamole alcune: polpette e involtini di carne, sanguinaccio, pizza di scarola, pizza fritta di farina rossa, scarola imbottita, gelatina di carne di maiale, ecc. Non ultimo il consumo tal quale, riservato soprattutto ai bambini come una sorta di dolciume, in virtù del quale i più discoli e golosi ne compivano vere e proprie razzie nella dispensa (‘u st(i)pon(e)) di casa.
Ed eccoci alle p(e)rnecchi(e), parola dialettale apparentemente astrusa, ma riconducibile all’italiano pennacchio o pendecchia, che figurano qualcosa di pendente, sospeso a qualcosa. Ed effettivamente di questo si tratta nel costrutto popolare ischitano di questo termine. Infatti queste pernecchie si ottenevano dalle tes(e) di vite ottenute intrecciando tra di loro due o al massimo tre lunghi tralci (stuocch(i))di vite che nel loro insieme venivano poi riportati da un palo all’altro di filare a costituire l’ annar(a). Una vera e propria opera d’arte viticola che trovava la sua massima espressione nelle zone dell’isola dove prevaleva per motivi strettamente ambientali la forma di allevamento a spalliera alta o altissima delle viti, alla maniera etrusca, e molto simile alle alberate campane (Casertano) e del basso Lazio.
Il contadino ischitano antico era da questo punto di vista un orgoglioso perfezionista, e pur non disponendo di livelle e di piombi, riusciva a ordire delle trame perfette di tralci anche su tre livelli sovrapposti (tre annar(e)). Il perfezionismo si accentuava fino allo spasimo quando una vigna era posizionata ai margini di una strada: il tema di brutte figure rinforzava vieppiù la nota di orgogliosa fierezza di mostrare a tutti la sua capacità e destrezza. Oggi osservo ben altra musica sulla nostra isola: nessuna vergogna di far ammalare una vigna di oidio o di farla rovinare dal marciume o invadere di erbe infestanti. Da questo tratto poco edificante non sono indenni nemmeno le aziende viticole più affermate dell’isola. Ma torniamo alle nostre pernecchie.
Erano una conserva di uva appassita che si otteneva selezionando tese di vite con uva spargola, ovvero con grappoli non troppo stretti di acini. Perfetta allo scopo era la biancolella, specialmente se masculiat(a), ovvero acinellata, con un misto di acini piccoli e grandi ben distanziati tra loro. Uva ben matura e sana, occorreva. Si tagliava la tesa in spezzoni di lunghezza massima di un metro e li si riportava alla semiombra della cantina o del portico, appendendoli il più possibile in posizione orizzontale sotto al soffitto, con tutte le foglie. L’appassimento lento, con scarsa luminosità e con la ricopertura parziale delle foglie che vi si adagiavano lentamente, facevano conservare ai grappoli il loro colore originario facendolo virare leggermente verso il verdolino. La conservazione di solito era ottimale, tanto che questa uva veniva poi consumata nel corso delle feste natalizie, facendone anche oggetto di dono ad altre persone insieme ad altri prodotti della terra (noci, nocciole, vino, agrumi, ecc.).
La vendemmia grande
Era un momento di grande aspettativa per tutta la famiglia contadina. Dal buon esito della vendemmia, sia in termini quantitativi che qualitativi, e dalla futura vendita del vino, dipendeva in massima parte il benessere di tutti i suoi componenti. Per i fittavoli c’era da pagare l’annuo canone di affitto ai proprietari del terreno, oltre ad altre eventuali prestazioni in natura (vino, frutta, uova, conigli, legna da ardere, ecc., da consegnare a domicilio in epoche e ricorrenze ben precise).
Per tutti c’erano da saldare debiti contratti per acquistare solfato di rame e zolfo, pali di castagno, culel(e), attrezzi, e in generale tutto quello che serviva alla conduzione del fondo ed alla gestione della cantina. Per non citare il dazio annonario sulla produzione e vendita del vino. Su questo aspetto ci sarebbe molto da dire in quanto ad aneddoti e storie di comune miseria e di assurde prevaricazioni perpetrate nel passato a danno della classe contadina povera dell’isola.
Troveremo un’occasione propizia per parlarne. Il viticoltore che aveva lavorato bene, e costantemente curata la sua vigna, a meno di calamità naturali ed eventi imprevedibili, non aveva da attendersi che un raccolto abbondante e di buona qualità. Ma il saper fare, l’arte di attendere a tutte le cose al meglio e nelle epoche più opportune, ancora oggi, non sono patrimonio diffuso omogeneamente nelle popolazioni contadine, e così è sempre capitato che tra tanti qualcuno non riuscisse ad ottenere i migliori risultati.
Cosa che succede ordinariamente anche oggi e non v’è da meravigliarsene oltre misura. Ma quello che certamente non mancava ai viticoltori antichi di Ischia era l’orgoglio di dimostrare di saperci fare. Uno sprone formidabile per colmare lacune tecniche, ma anche per profondere maggiori energie ed attenzioni laddove nel passato fossero mancate. Ma ritorniamo alla vendemmia! Già sul finire di agosto, ultimati i lavori in vigna, si pensava ad essa. Allora si innescava un fervore totalizzante di preparativi. Si iniziava dalle botti e dagli attrezzi che occorreva impiegare. Le botti erano quelle che davano più da fare.
Occorreva abbonirle e soprattutto stringerle nelle doghe. Per quelli che stavano più a ridosso delle marine, era usuale portare quelle più maneggevoli (burduless(e), vott(e), mezevott(e) e quartaruol(e)) sui moli e li riempirli di acqua marina. C’era anche qualcuno che per un piccolo compenso si pigliava la briga di rabboccarle con altra acqua marina, all’occorrenza. Si trattava di personaggi molto umili che stazionavano sul posto per cogliere quell’occasione per modesti ed occasionali guadagni. La soluzione del mare aveva diverse motivazioni: in primo luogo l’acqua salata contribuisce ad abbonire le botti da piccoli difetti o inizi di malattie del legno (acescenza, muffito, secco, ecc.), in secondo luogo per avere un più efficace rigonfiamento delle doghe, senza consumare la preziosa acqua dolce delle cisterne, necessaria per altre pratiche nelle quali l’acqua marina non è per niente idonea. L’esito finale atteso era quello di avere delle botti cui affidare con sicurezza i mosti da fermentare.
Nelle cantine e nei suoi pressi si dava di braccia per manovrare le botti. Occorreva stringere i cerchi, calafatare e rinfazzare eventuali falle in doghe e tompagni, disincrostarle dal cremor tartaro che veniva chiamato ‘u nitr(o). Operazione relativamente facile nelle botti grandi con portella, nelle quali il cantiniere entrava direttamente al suo interno, con una manovra molto delicata- che non tutti riuscivano a fare- proprio imboccando il portello. Poi si dava da fare con acqua e scopella di mortella, alcune volte anche con attrezzi metallici, per grattare via l’eccesso di cremore.
Dentro, quando la luce difettava, si usava un lucignolo ad olio o un moccolo di candela recuperato a basso prezzo nelle chiese. Il consumo di acqua era notevole, ma non disponendo di acqua corrente, occorreva evitare gli sprechi. Quindi si recuperava l’acqua ancora bastevolmente pulita per riutilizzarla. Il tinello di legno ed il cato erano di uso comune. L’acqua prelevata a mano (con un secchio metallico assicurato ad una catena fatta scorrere in una troc(io)l(a) ovvero una carrucola) dalla cisterna. Poche cantine avevano una pompa alternativa a manovella.
L’acqua era dislocata ove occorreva, soprattutto dalle donne o dagli uomini più anziani che operavano quindi a supporto. I rumori più comuni, in questa fase, erano i colpi cadenzati del martello sullo stringi cerchi o sullo scalpellino a coda di rondine, il rotolare alternato a due o quattro braccia delle botti sugli imposti, lo scoppio del tappo delle botti sottoposti a cuffiat(a) di acqua bollente per una maggiore necessità di abbonimento, lo scoppiettio dei ceppi di legno sotto la caurar(a) per produrre l’acqua calda per scaurare palmenti, uscitoi, tine, tinelli, pigiatrici (chi l’aveva), torchi, e pezzi di torchi, ecc., e non di rado i più virtuosi sbollentavano anche la porta della cantina e l’esterno delle botti, dai più trascurati. Il fattore comune era che le cantine venivano letteralmente messe sossopra.
L’imperativo totalizzante era: pulizia! quindi caccia aperta alla polvere, e via tutte le cose estranee all’uva ed al vino. Le scaurate fatte con acqua bollente infusa con rametti di mortella, foglie di cedrangolo e nepetella con l’aggiunta di cenere bianca di legna, producevano tanto vapore profumato e igienizzante, che alla fine tutta la cantina emanava un gradevole e rassicurante profumo di pulito. Nella scaurata era fondamentale e obbligato l’uso del cato di legno, in quanto ottimo isolante del calore evitava scottature alle mani e soprattutto non si deformava col calore.
La cura dell’igiene era forse la parte più impegnativa, considerando la ristrettezza dei mezzi a disposizione e la necessità di più ripassate per giungere ad un risultato soddisfacente. Non mancavano gli incidenti. I più comuni: Le scottature con acqua bollente, contusioni in varie parti del corpo, piccoli tagli con coltelli o forbici, colpi di martello, ecc. Le ultime operazioni erano senz’altro il controllo degli intonaci di palmenti e uscitoi, e le conseguenti riparazioni in caso di necessità. L’impostamento delle botti piccole sui loro supporti, la chiusura dei portelli delle botti grandi con impiego de ‘u tirapurtiell(o), l’applicazione de ‘i ngugn(e) di legno di fico a tutte le botti, grandi e piccole, il posizionamento della pigiatrice – quando presente- sul palmento, che prevedeva prima il dislocamento di una trave di legno castagno su cui poggiare una delle coppie di assi di appoggio, ed in ultimo, ma non necessariamente l’applicazione del tappo di legno al roc(e) del palmento.
Questa operazione era fatta con molta attenzione (con l’uso dello scalpellino a coda di rondine) per evitare il precoce percolare del mosto nell’uscitoio, dato che un tempo le vinacce prima di essere separate e torchiate, venivano fatte macerare nel mosto per uno – due giorni. Questa pratica detta con l’espressione “a munacci(a) addà ammaturà, s’addà coc(e)!”(la vinaccia deve maturare, deve cuocersi) aveva lo scopo precipuo di favorire lo sgrondo del mosto e rendere più agevole ed efficace la torchiatura. Ora è tutto pronto per iniziare la vera vendemmia. Seguitemi, andiamo a vedere cosa succede…
Rind(e) a terr(a)! (dentro la vigna!)
È tutta una concitazione di uomini soprattutto, ma anche di donne, ragazzi e persone anziane. C’è un’euforia particolare che pervade dall’interno il gruppo: …Prendi, afferra, porta i tinelli, i cati, mi raccomando fai così, spostati di là, io inizio da qua, voi andate di la, mi raccomando il tempestino non lo cogliete, fate attenzione a non far cadere acini per terra, raccoglieteli, alza il tinello, l’avete caricato troppo mi cola il mosto addosso, non calcate troppo la mano nel tinello, sei una mollecchia dai che è vuoto, ti sei fermato a bere nella cantina, non stare troppo dietro alle gonnelle, se sei stanco fatti una dormita sotto alle viti,… e così via.
L’inizio era sempre un poco incerto, come di un motore che deve andare in carburazione, poi la macchina andava e proseguiva spedita. Da una parte i tagliatori- i veri vendemmiatori- per lo più anziani, donne, ragazzi e ospiti occasionali e volontari, dall’altro i trasportatori, ovvero quelli che si caricavano i tinelli di legno in spalla (o in testa) per trasportare l’uva fino alla cantina. Nel vigneto c’era anche una gerarchia: una o più persone che impartivano istruzioni e colmavano i tinelli fino ad una pressatura finale che rendeva l’uva a forma di cupoletta. Serviva anche per evitare perdite durante il trasporto, ma soprattutto per caricare bene ogni recipiente.
Con trasportatori robusti e ben disposti allo sforzo, si cercava in tal modo anche di ridurre il numero di viaggi verso la cantina. Quando il tiro era lungo, si preferiva anche fare una sorta di staffetta- in dialetto “s(e) carreia a scunt(o)”, che tradotto alla lettera diventa “si trasporta ad incontro”. Ed era questa particolare forma di trasporto a dare spesso luogo a dispute che potevano sconfinare anche in aspri duelli verbali. Ciò avveniva quando chi era carico e si aspettava l’incontro con l’uomo di ritorno in un certo punto, era invece costretto a proseguire ben oltre il suo percorso. Ed allora giù un rimpallo di improperi e di giustificazioni. Ma se il gruppo era ben composto, di solito tutto filava in maniera regolare ed armoniosa, ed alla fine il palmento si riempiva.
L’uso di asini e muli era invalso nelle località dove erano presenti mulattiere idonee a quegli animali, e specialmente con distanze notevoli da percorrere. I tinelli venivano assicurati al basto dell’animale di solito con due coppie sui due fianchi. Laddove possibile si ricorreva anche al carretto trainato dai muli. Più recente l’uso del motofurgone a tre ruote. Chi non lo possedeva si rivolgeva a padroncini che spesso facevano anche posta nelle piazze dei vari comuni. Erano in effetti gli eredi più moderni dei carrettieri.
Nella raccolta dell’uva la differenza più vistosa era tra i comuni dove erano in uso le viti a spalliera alta o altissima- Ischia, Barano, Casamicciola in parte – e quelli invece che da sempre hanno adottato le spalliere basse o bassissime (Lacco, Forio, Serrara Fontana). Forme intermedie ci sono sempre state dappertutto. Nelle prime era obbligatorio l’uso della scala e del cato di legno con assicurato al manico ‘ru crocc(o), un uncino, con uno spezzone di fune a fare da intermedio.
Le viti più alte nelle plaghe vitate basse di Ischia (S.Antuono, Campagnano, S. Michele, Mandarino, zona del Porto, Il Cavone della Panzese, ecc.) e Casamicciola. Nelle prime un’alta percentuale di viti Biancorellone, Biancolella, Romana, Guarnaccia, ad internodi lunghissimi, sulle viti pre-fillosseriche, quindi franche di piede, consentivano di raggiungere altezze anche di sei-sette metri, e quindi viti con tralci allineati in alto fino a quattro annar(e), ovvero palchi, dove raccogliere l’uva. Una frase ricorrente era la seguente: Con una sola puntata di scala “haggie incut(e) quatt(o) cat(e) r’ uv(a)“, che tradotto diventa “ho riempito quattro catini d’uva”. Ciò a significare l’abbondanza del raccolto in verticale. La persona addetta a tanto, si diceva che fa scal(a). Per distinguerlo dai tanti che invece v(e)nnegnavano p(e) sott(o).
Un espediente per raggiungere grappoli posti fuori dalla portata delle mani, ma non ad altezze ragguardevoli, era quello di salire coi due piedi sul bordo di un tinello, in equilibrio. E da li tagliare l’uva e versarla direttamente nello stesso tinello montato. Poi si passava man mano in avanti ripetendo l’operazione laddove necessario. Una volta terminata la vendemmia, quando ancora non erano impiegate le pigiatrici, si procedeva alla calcatura delle uve con i piedi.
Più uomini lavavano piedi e gambe con l’acqua calda contenuta in un tinello di legno, raccorciavano i pantaloni al ginocchio o indossavano brache corte ed entravano nel palmento. Si sostenevano con le mani a robuste pertiche di castagno disposte di traverso ad altezza opportuna e iniziavano a pigiare. Occorreva una certa maestria per fare bene il lavoro: si procedeva sistematicamente affondando i piedi alternativamente nella massa, stando di fianco l’uno all’altro, o contrapposti a due a due, muovendosi lungo le pertiche.
Gli uomini di statura più alta potevano lavorare meglio specialmente se il palmento era colmo. Si sopperiva a tale situazione, nel passato, costruendo palmenti non troppo alti, ma estesi su una superficie più ampia. Il modo di inferire le pedate, accostando i piedi l’uno all’altro, si acquisiva con l’esperienza e con i rimproveri degli anziani che osservavano dall’esterno i giovani alle prime esperienze. Con l’uso accorto della cincurenz(a), appostata su di un lato del palmento, di tanto in tanto si rivoltava la massa per mettere a vista grappoli non schiacciati.
Di solito la calcatura era preceduta dalla sp(i)lat(a) ru’ palemient(o), ovvero dalla stura del palmento. Per far defluire man mano il mosto nell’ iscetur(o) si toglieva il tappo di legno che vi era stato applicato ad inizio vendemmia. Ho mancato di dirvi nelle puntate precedenti che prima di iniziare la vendemmia, all’interno del palmento il foro di deflusso del roc(e) veniva munito di un fascetto di sarmenti di viti privi di foglie, ed aperto più o meno a ventaglio. A questo a sua volta veniva addossato un groviglio di smilace – la cosiddetta straccia brache – denominata ‘a ruscagli(a). In ultimo, a scopo di bloccaggio dell’insieme, una grossa e pesante pietra regolarmente scaurata e lavata. Lo scopo di questo apprestamento era quello di assicurare un efficace filtrazione e drenaggio del mosto nell’uscitoio. Altri usavano anche una scopa di mortella confezionata e dimensionata allo scopo, anch’essa bloccata con una pietra per evitare che risalisse a galla con la spinta del mosto.
Occorre dire però che sovente la calcatura veniva fatta a palmento otturato, per il motivo che si preferiva far maturare la vinaccia nel mosto sia per rendere più agevole la torchiatura che per la credenza che così si otteneva un vino migliore. Una strada intermedia era quella di far defluire una parte di mosto e poi riotturare il palmento per far maturare le vinacce. Si iniziava quindi ad ammutta(re) il mosto nelle botti, usando tinelli di legno, lo scaliello ed il muto, inserito nel mafaro della botte. La traduzione di questi termini la trovate nelle puntate precedenti, sempre che non le abbiate già metabolizzate. Intanto nel palmento si manipolavano le vinacce costituendo il cosiddetto murill(o).
In pratica impiegando il forcone si spostava la vinaccia su uno o due dei muri del palmento, escludendo quello del roc(e), e man mano la si costipava anche con l’uso delle mani nude a formare una massa che somigliava appunto ad un muretto. La rifinitura sul pavimento era fatta con la scopa di mortella. Serviva tutto ciò a facilitare l’ulteriore fuoriuscita del mosto ed il suo convogliamento nell’uscitoio. Si era pronti alla torchiatura! Una parentesi sull’uso della Pretatorci(a): con questo meccanismo a leva e bilanciere, la pressatura delle vinacce veniva eseguita direttamente nel palmento. Il sistema si avvaleva del peso di un grosso masso di tufo verde a forma tronco conica, trasferita con una leva costituita da un robusto palo di legno alloggiato con un estremo in una delle pareti del palmento, ad un tavolato applicato sul cumulo precostituito di vinacce.
Il progressivo sollevamento da terra del masso, ottenuto mediante la torcitura della treccia di corde che reggevano il masso, faceva ottenere la pressatura e la fuoriuscita del mosto. Era un sistema ingegnoso, ma molto laborioso e poco efficace in quanto a resa in mosto. Immaginate con un poco di fantasia un gigantesco schiacciapatate! Con l’avvento dei torchi a vite, il sistema fu rapidamente abbandonato.
Oggi rimane la curiosità di conoscere quel meccanismo anche un tantino complicato, che spesso provocava anche degli incidenti piuttosto seri a chi lo applicava. Lo si può ancora osservare in alcuni musei etnici e contadini dell’isola. Mentre le vestigia delle pretatorci(e) sono disseminate sull’isola nelle vicinanze delle antiche cantine, o nelle ville dei cosiddetti “signori”, come un totem che oggi non suscita neanche particolari emozioni. La pressatura con i torchi sia razionali che idraulici, era relativamente più semplice.
Le vinacce prelevate con i tinelli dal palmento e versate nella gabbia del torchio venivano man mano calcate con i piedi per un riempimento ottimale. Anche questa operazione era da farsi con maestria, ovvero non esagerando con la pressione e, ad esempio tenendo i due piedi giunti, l’uno accostato col tallone alla gabbia e l’altro con la punta delle dita alla vite maestra. E sorreggendosi alla testa del torchio portata a giro alternato (avvitata-svitata). Poi il montaggio dei vari pezzi del castelletto dai tompagni fino alle accannator(e).
Lo scampanellio delle zeppe nelle due ganasce era così caratteristico e distinto, che anche da lontano si capiva che nelle vicinanze si stava trucchiann(e). le braccia contrapposte di due uomini-faccia a faccia- davano l’impulso alla macchina così facendo colare il mosto nel tinello sott(e) a vocc(a) ru trocchie. Con cambi frequenti del tinello con vinacce fresche e sature di mosto, più radi con vinacce di seconda pressatura. Si faceva infatti almeno una replica (‘a sicond(a) passat(e)). All’atto di svuotare il torchio dopo la prima pressatura, le vinacce venivano sciusciuliat(e). Difficile trovare un equivalente in italiano: si trattava di un rivoltamento della vinaccia che procurava il loro arieggiamento e un loro riposizionamento lasco, un rivoltamento generalizzato. In quell’occasione si eliminava anche una parte dei raspi per diminuire la massa totale.
Qualcuno riporta a memoria anche il caso di tre passate nel torchio. In quel caso si diceva che “U patron(e) ce vo tirà e strepp(e) a cul(e)”, ovvero, vuole esasperare al massimo la torchiatura. C’era però chi osservava che il vino poi avrebbe ‘nzuariat(e), ovverossia avrebbe assunto un sapore allappante, tannico ed astringente.
La torchiatura di solito non era ammostata in botti separate, quanto piuttosto distribuita in parti più o meno proporzionali nelle varie botti della cantina, in modo da ottenere una qualità standard del vino. In modo empirico qualcuno affermava che ‘u sp(i)rit(o) stà rinte a trucchiatur(a) – che sta per: la torchiatura contiene più alcool del mosto ordinario. Sappiamo per certo che è esattamente il contrario! Il vino affidato alle botti non doveva far altro che vull(e)re ossia bollire, fermentare. Per assicurare un minimo di protezione ed evitare ad esempio che i muschill(i) ru vin(e) entrassero oltremisura al loro interno, il mafaro veniva coperto con uno strato di foglie di fico con il peso superiore di una piccola pietra. Si aspettava la fine della fermentazione per chiudere il cocchiume delle botti con tappo di sughero guarnito di stoffa. L’ultima operazione era la cernita delle vinacce per separare arill(e), i vinaccioli.
L’operazione si faceva armando uno scaliello su due tinelli contrapposti e capovolti. Due persone si sedevano sullo scaliello, faccia a faccia. In mezzo a loro ‘u crive i l’arill(e), ovvero un robusto e largocrivello di legno munito di una rete a maglia di circa 8 millimetri, che una terza persona caricava man mano con il forcone a 5 denti. I due facevano scivolare alternativamente il crivello afferrandolo ognuno con una o due mani. I vinaccioli cadevano di sotto su di un telo e poi raccolti alla fine per esporli al sole a scopo di asciugatura. Nei mesi successivi era un mangime che integrava la dieta di maiali, conigli e galline. Le vinacce prive dei vinaccioli erano invece distribuite nell’orto o nel vigneto come concime. Taluni usavano anche farle seccare all’aria e conservarle poi come combustibile del focolare domestico.
Si avvicinava S. Martino, e tutti erano in trepidante attesa per spillare ed assaggiare il nuovo vino. Un amen ai santi del Paradiso che affissi con le loro immaginette ai tompagni delle botti, anno per anno non mancavano di proteggere il loro prezioso carico.
Ischia, la favolosa vendemmia del 1968!
(alla memoria dei miei genitori)
“Abbiamo bisogno di un’altra stiva, quest’anno l’uva è assaie, e le botti che abbiamo non bastano! “Così a tavola, la famiglia riunita, si espresse Giovan Giuseppe, stimando già con tre mesi di anticipoche la vendemmia di quel 1968, per la sua famiglia sarebbe stata straordinaria. Aveva fatto le cose per bene. Tre anni prima aveva incominciato a coltivare la vigna che nonno Francesco aveva donato a mia madre Filomena, sulla Costa del Lenzuolo. Quella terra si univa alle altre già coltivate, e non erano poche! Un moggio e mezzo di terra lapillosa, sorretta da alte parracine secolari bruciate dal sole.
Le viti erano rade e grame, molte parracine erano crollate da anni e mai rialzate, la terra era isterilita, affamata di concime e coperta di rosse cetelle (acetosella), le spalliere in completa rovina. Uno sfacelo quasi totale. Iniziammo già dal primo autunno l’opera di recupero. Io e mio fratello Tonino, nel poco tempo sottratto allo studio, ma anche di domenica, a togliere l’erba da sotto i filari delle viti, a scansare le pietre delle parracine cadute per poi iniziare la loro ricostruzione, a pulire dalle erbacce laddove era necessario.
A novembre del primo anno la terra era come un fronte di guerra: ovunque terra rivoltata per ricavare lunghe e profonde trincee dove piantare centinaia di viti americane che Ciuaggiusepp(e) aveva propagginato nell’anno precedente nelle altre vigne che già coltivava. Noialtri si trasportava letame e concime e si aiutava, per quanto possibile, in tutti questi lavori, completati poi dai braccianti che facevano nera tutta la terra scauzandola (dissodandola) a regola d’arte così come esigeva fermamente mio padre. Per noialtri di famiglia era un’impresa totalizzante: occorreva dare tutti il proprio contributo, compresa mia madre e le mie sorelle, per le cose che ovviamente potevano fare, soprattutto a supporto, curando poi con dedizione assoluta tutte le faccende di casa.
Il tutto non passava inosservato ai nostri vicini di terra che registravano incuriositi, ma senza ombre di invidia, tutto quel prodigarsi intorno a quel pezzo di collina. Erano in totale cinque terrazze, ma lunghissime ed affacciate completamente ad est, quindi con un’ottima esposizione al sole: terra eletta per le viti e per uva di qualità! L’obiettivo di Ciugiusepp(e) era quello di imitare il modello dei fratelli Pietro e Vincenzo Mazzella, ovvero il vigneto perfetto! Non lo diceva esplicitamente, ma io lo intuivo ugualmente.
“Dobbiamo armare le viti tutte con pali e traverse!” – diceva – “Le canne devono essere un di più …, le parracine in tre,massimo quattro anni devono essere tutte in piedi, non deve mancare nemmeno una vite … “-, e via di seguito. E così avvenne: ogni anno centinaia di pali di castagno acquistati a Casamicciola, a piazza Maio, e trasportati ad Ischia con un grosso camion messo a disposizione da Mario Timone. Poi la sezionatura in spanghe (spranghe) nella segheria di Rocchino Napoleone, di solito nel giorno della vigilia di Natale, e la divisione manuale con zeppe e pioli, eseguita con grande maestria direttamente da mio padre, dei pali più lunghi per ricavarne le pertiche da usare come traverse nella costituzione delle spalliere. Destino finale: La terra della Costa del Lenzuolo. Tutto trasportato a spalla sulle strette scale incassate nelle parracine.
Già nel secondo anno la vendemmia era stata promettente: le viti ancora in salute si erano riprese e avevano prodotto di più e meglio. Intanto gli innesti delle prime viti americane crescevano robusti e lasciavano presagire bene per gli anni a venire. La vigna sembrava lievitare sotto l’incalzare delle cure che vi venivano prodigate, tanto che da via Michele Mazzella, all’altezza degli uffici ex SEPSA, i suoi contorni si delineavano perfettamente rispetto alle terre confinanti, più trascurate e rade. Ma quel 1968 fu un anno veramente straordinario!
A metà giugno Giovangiuseppe ordinò alla segheria Telese un fusto di castagno da quatto botti e mezzo (circa 2300 litri). A fine agosto era pronto. Per portarlo in cantina e metterlo sugli imposti (puost(e) i v(e)ttun(e)) si rese necessario smontare alcuni filari di vite, attraversare il terreno di un vicino, e montare una sorta di binario con robuste corde su cui fu fatto scivolare spinto da numerose e robuste braccia. Noi ragazzini che osservavamo a distanza coglievamo la similitudine di quella scena con il tiro a secco di una grossa barca da pesca che spesso ci era dato osservare sulla spiaggia dei pescatori ad Ischia.
Intanto la vigna della Montagna – così la chiamavano noi – mostrava sempre più la sua straordinaria prodigalità. Viti sanissime e cariche di uve altrettanto sane e bellissime. C’era dietro un lavoro certosino, che ad alcuni sembrava quasi eccessivo, tanto da far esclamare: “Ma che date il verderame alle stanghe?“, quando all’inizio di aprile, a germogliamento appena iniziato, si dava alle viti già un primo trattamento. Ma si sa, le cose buone sono fatte per esser imitate, e qualcuno dei nostri vicini pian pianino incominciò ad adottare lo stesso metodo, o almeno a provarci. Tra questi il mio indimenticato zio materno Pitruccio.
A fine agosto l’ultima scorsa (sarchiatura leggera) della terra per fare in modo di vendemmiare il più possibile sul pulito. Già da luglio si erano piantate corte canne sulle maren(e) (cigli delle terrazze) per sorreggere i tralci appesantiti dai grappoli per non farli toccare terra. Tutto era pronto per la vendemmia che si iniziava verso la fine di settembre. Ma c’era ancora il tempo per alcune operazioni preliminari. Era tutto un fermento umano che preconizzava il vero fermento del mosto nelle botti!
Occorreva avvicinare alla cantina una buona scorta di legna doppia e fina che sarebbe stata impiegata sia per fare acqua calda per sterilizzare la cantina, sia per le caurare (caldaie) di mosto da immettere nelle botti per arrotondare il gusto del vino. Per il rinnovo delle zeppe con cui si bloccavano i fusti sugli imposti bisognava trovare un ciocco di fico dal legno morbido che si adeguasse bene al legno dei fusti. Nel bosco si dovevano raccogliere rami di mortella e farle seccare al sole per ricavarne scopelle profumate con cui ripulire i palmenti e l’interno dei fusti grandi, portare sull’aia le botti piccole, i tini ed i t(e)nielli per immergerli nell’acqua e così farli stringere nelle doghe.
Un lavoro durissimo, specialmente se fatto tutto a mano e senza l’ausilio delle moderne attrezzature. Pensa, caro e paziente lettore, che l’acqua doveva essere tutta attinta a secchi dalla cisterna, facendo la massima attenzione a non sprecarla. Ma l’igiene non ne soffriva, giammai! Quando si procedeva alla “scaurata “della cantina (letteralmente la riscaldata, ovvero la sterilizzazione con acqua bollente), ogni attrezzo, anche il più piccolo veniva sbollentato e poi di seguito lavato con acqua fredda. Nella cantina un trattamento speciale veniva riservato ai palmenti ed alle botti che venivano cuffiate (insufflate di acqua e vapore bollenti), stessa cosa dicasi per il torchio e la pigiatrice. L’acqua bollente veniva spesso profumata inserendovi foglie di melangolo e rametti di mortella. In alcuni casi anche la cenere di legna, specialmente se si trattava di bonificare botti perse (ammalate di vino spunto o di putrido).
Chi entrava in cantina durante e appena dopo tale trattamento, magari ancora avvolta nel vapore caldo, sentiva un profumo di pulito pieno e rassicurante. Non un granello di polvere doveva insidiare la vendemmia che si approssimava! Tutto quello che era estraneo al vino doveva essere allontanato. Ma ritorniamo a Ciuagiusepp(e), come viveva questi momenti, cosa lo preoccupava, come si muoveva, lui che aveva la responsabilità su tutto e su tutti ? Certamente con grande ansia, ma anche con una fermezza ed una capacità decisionale notevoli. Era un grandissimo lavoratore e chi gli stava vicino ne era inevitabilmente coinvolto.
Quell’anno non avremmo chiesto in prestito i tinelli a Giuseppe i Rengon(e) detto anche u’ barbier(e). Mio padre ne comprò una dozzina di nuovi che prontamente vennero marchiati a fuoco con le sue cifre: M.G.G. Tutte quelle novità mi inorgoglivano, perché davano il senso di un’impresa importante che stava giungendo al suo culmine. Mio padre come al solito si assicurò il servizio con un motofurgone APE da Antonio i trapanarella, oggi ancora apprezzato tassista, ma all’epoca giovane trasportatore di piazza, e di alcune braccianti – si avete capito bene, donne braccianti! – per il trasporto dell’uva sul capo protetto da un tortano di stoffa, dalle schiappe vitate alla cantina.
La vendemmia favolosa!
E venne il tempo della vendemmia. Si iniziò dalle vecchie vigne di S. Ciro e dintorni perché l’uva destava qualche preoccupazione. Poi tutta la truppa si spostò nella terra della montagna, sulla Costa del Lenzuolo. I grappoli dorati di biancolella, forastera, S.lunardo, Arilla, biancorellone, venivano finalmente sottratti al dominio del sole sotto il quale avevano distillato il dolcissimo nettare contenuto come in tanti cristalli preziosi e rilucenti di vita, negli acini graziosissimi e carichi di una promessa di bontà che non ammette nessun dubbio o incertezza di sorta.
Era tanta, tantissima l’uva, e tutta bella, bellissima, da non poter raccontare! Era una vera e propria processione interminabile quella che scendeva giù dalla vigna verso il furgone di trapanarell(a). Se ne accorsero i trasportatori e le trasportatrici (ricordo tra esse Maria e Raffaela che scendevano dalla Molara, belle e infaticabili lavoratrici!). Ma in tutti l’incredulità al cospetto di tanta e bellissima uva, difficile da trovare altrove, cancellava sul nascere qualsiasi remora sulla fatica prolungata cui si era sottoposti. Ma se ne avvidero anche tutte le persone che incontravamo nel tragitto da via Dell’Amicizia alla cantina di S. Ciro.
E tutti sostituivano all’inziale sorpresa, una gioiosa esultazione e indugiavano intorno ai tinelli mangiando uva di gran gusto. In fondo era anche la loro uva, per la vicinanza e la simpatia che dimostravano alla nostra famiglia. Il palmento fu presto colmato e altra uva attendeva di essere pigiata. Fu quindi necessario ammuttare (trasferire il mosto dal palmento alle botti) e l’operazione fu ripetuta più volte nello stretto spazio della cantina. Era un supplemento di fatica, ma per tutti la soddisfazione era tanta per la fantastica abbondanza della raccolta.
Tutte le stive (dotazione di fusti e botti)della cantina vennero riempite, comprese le damigiane, tanto che si provvide a colmare anche il fusto di un nostro parente che aveva prodotto meno uva del solito. Era arrivato intanto un nuovo torchio in cantina. Si trattava per noi di una novità assoluta in quanto la testa premente (a capa ru trocchio) era diversa da quelle ordinarie. Si trattava di un martinetto idraulico, per il cui montaggio ci fu un vero e proprio consulto tra gli adulti del gruppo, senza riuscirne a venire a capo. Di soppiatto sottrassi il foglietto di istruzioni e mi diedi a leggerlo, e nel giro di pochi minuti l’arcano fu svelato. Finalmente ci si mise all’opera e occorsero ben due giorni completi con due torchi in funzione.
Mio nonno Antonio (u’ sargent(e)), che durante la vendemmia, solitario, si occupava di raccogliere tutti gli acini caduti per terra, dando conto alla fine di quanti tinelli aveva così recuperato, era particolarmente abile nel dirigere la torchiatura. Nei giorni successivi si lavava ben bene tutto e si riponevano tutti gli attrezzi. Ma ci si preparava ad una vendemmia minore: la raccolta dell’uva a bella posta lasciata sule viti – di solito la più bella e matura- che insieme all’uva rossa serviva a fare l’acinato. Un vino speciale per occasioni speciali. Ma di questo spero di potervi raccontare in altra occasione.
Cosa dirvi ancora, miei cari amici lettori? Che tante vendemmie ancora si susseguirono negli anni seguenti! Che ogni volta al termine della vendemmia era bello inebriarsi negli effluvi fermentativi della cantina! E oggi? Bhe, oggi ci sono due categorie di ischitani. Una che non demorde e continua a coltivare le tradizioni e fieramente coltiva il suo vigneto, piccolo o grande che sia e va orgoglioso della sua vendemmia. La seconda, che ha perso completamente le sue radici, che vendemmia su via Vincenzo Di Meglio, appena dopo i Pilastri, con il furgone accostato ad un camion carico di sporchissime e maleodoranti cassette con uva che viene da chissà dove. Io mi onoro di stare nella prima categoria e spero di ricordare sempre la favolosa vendemmia del 1968.
Dott. Francesco Mattera – agronomo libero professionista, socio del Centro Studi dell’isola d’Ischia e membro del CDA e del comitato tecnico–scientifico dello stesso sodalizio
(!) NOTA DELL’AUTORE (!): Per la lettura delle parole dialettali, le vocali chiuse tra parentesi non vanno pronunciate. In tal modo si ricava foneticamente qualcosa di molto vicino alla pronuncia del volgo.